E’iniziato il mese mariano con la processione al Santuario della Madonna della neve in Biandino – Breve storia

Scritto il 9 maggio, 2013

E’ iniziato come da tradizione mercoledi 1 maggio 2013, con la processione da Introbio a Biandino al Santuario della Madonna della neve culminato con la messa. Il Santuario, molto amato non solo nella Pieve di Primaluna, è meta di pellegrinaggio anche dal milanese.

ECCO UNA BREVE STORIA DEL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA NEVE

Dai Secoli più lontani sino alla fine del 1700 la strada che da Introbio risale la valle del Troggia, raggiunge il passo della Cazza (oggi chiamato delle Tre Croci o Santa Rita) e, valicando la bocchetta di Trona, scende in Val Gerola per raggiungere Morbegno, era molto frequentata da mercanti, viaggiatori ed eserciti, essendo questa la via più breve che da Milano, passando per Lecco e la Valsassina, portava in Valtellina e da qui, attraverso i passi alpini, alle regioni del centro Europa. Il tratto Introbio-passo della Cazza costituiva anche il principale accesso alle antichissime miniere di ferro dell’alto Varrone e a quelle di piombo e argento di Camisolo. La conca di Biandino e Sasso era quindi un importante punto di transito e di sosta; inoltre, per la ricchezza di pascoli e acqua, è da sempre ben conosciuta e frequentata dal mandriani i quali, da tempo immemorabile, qui portano il loro bestiame per trascorrervi i mesi estivi. La suddivisione della proprietà di questi pascoli era regolamentata, e in parte lo è tutt’ora, secondo il sistema delle “porzioni o “paghe”.

Il totale delle paghe non rappresentava la superficie ma il numero dei bovini adulti che potevano essere “caricati” sul monte; delle tabelle particolari stabilivano poi a quante parti di paga corrispondevano gli animali giovani, le capre, le pecore, ecc. Le paghe non erano traducibili in pertiche, metri quadrati o altre misure e sugli strumenti notarili di compravendita veniva apposta la precisazione che il passaggio di proprietà avveniva a corpo e non a misura”. Il nuovo proprietario cioè non comprava un’area determinata ma entrava in comunione con gli altri proprietari, acquistando il diritto di portare sul pascolo un numero di bestie adulte corrispondente a quello delle paghe comperate, oppure di affittarle. Questi luoghi sono fra i più belli delle Prealpi lombarde e secondo Paride Cattaneo, canonico di Primaluna nel 1500, i bergamini che avevano la fortuna di passare l’estate nella valle di Biandino se la spassavano un mondo. Infatti ha lasciato scritto: «I pastori ritrovandosi ben pasciuti et grassi godono assai quella morbida et poltronesca vita. Vedevansi a belle squadre danzare, ballare et saltare, altri correre, altri sonar et cantare, altri nel chiaro fiume piano et piacevo le nuotare et pescare, altri vedrai lottare, far correre cavalli, altri far risonar gli antri, caverne spelonche, li cavi sassi, li alti colli et le basse valli da lor frequenti gridi, urli et fremiti, da rusticani stromenti di varie et diverse sorti, et da repetiti nomi delle sue dolci et grate favorite.

Altri essendo poi pieni di cibo si vedono prostrati sopra le verdi herbe sonnacchiar, dormire et ronfare, et altri per fuggire l’ozio… tesser sportelli et altri degni esercizi. Far li vedrai cose che a lor danno spasso…». Il buon canonico ha evidentemente calcato la mano; la vita dei bergamini e mandriani sicuramente non è mai stata tanto gaia. Ma ho voluto riportare la descrizione perché serve a testimoniare come su quei monti, nei mesi estivi, abitassero tante persone. Giusto quindi che, prima o poi, qualcuno pensasse a fornir loro l’assistenza religiosa costruendo in loco una cappella per sopperire alla bisogna. Concluso il preambolo passiamo a parlare della Chiesa di Biandino. Innanzitutto è bene sottolineare che la sua dedicazione alla B.V. della Neve non è casuale. Nelle nostre vallate la devozione a Maria, venerata sotto questo titolo, è molto antica e la Sua festa era celebrata in tutta la Comunità di Valsassina, il cui territorio corrispondeva grosso modo a quello della Pieve di Primaluna. Pietro Pensa, nel suo volume «Noi gente del Lario», scrive: «Ne trovo prescritta la festa al 5 agosto in due codici manoscritti del 1500 in mio possesso, uno in latino l’altro in volgare, riportanti gli Statuti della Valsassina…». Tale prescrizione è ripetuta negli Statuti riscritti nel 1674, dei quali possiedo una copia, dove al Capitolo 1500, avente per titolo «Del celebrar le feste», si legge: «È stato ordinato, e stabilito, che non vi sia persona alcuna di detta Valle, e Monti, la quale in modo alcuno ardisca, ovvero presuma, nell’istessa Valle, e Monti, lavorare né far alcun lavorèrio nell’infrascritte feste…». Nell’elenco delle feste obbligatorie figura anche quella della «Madonna della Neve al dì 5 agosto». Al culto antico per la Madonna di Biandino accenna pure Antonio Balbiani nel suo romanzo «Il Lasco», ambientato nella Valsassina del 1600, facendo dire a uno dei personaggi: «Nel paese (Introbio) si costuma che tutte le giovani spose si rechino dalla Madonna, su a Biandino, a ricevere la benedizione poco prima di celebrar le nozze…».

La sua protezione era invocata particolarmente da coloro che vivevano e lavoravano in montagna o ne praticavano le strade. Fra questi, nel nostro territorio, oltre ai minatori, boscaioli, carbonai, c’erano ovviamente i bergamini e i pastori. Ecco perché i componenti della famiglia Annovazzi, a quell’epoca proprietari del Monte di Sasso, allorquando decisero di costruire una chiesetta sui loro pascoli convenirono di intitolarla alla Madonna della Neve. Apriamo una parentesi per dedicare due parole agli Annovazzi: «Famiglia notabile proveniente da Valtorta stabilitasi a Introbio nel XV secolo e poi di qui diramatasi nel secolo XVII a Vimercate, Abbiategrasso, nel Novarese ed altrove» (Archivio Pieve di Primaluna – Stemmario Pezzati). Questa parentela a Introbio si è estinta. L’ultima discendente di questo casato legato alla storia della chiesa di Biandino, è la signora Lina Rigamonti la cui mamma, Annetta, era figlia di Angela Annovazzi. Chiusa la parentesi riprendiamo il nostro discorso. L’anno esatto in cui fu costruita la prima chiesa non sono in grado di precisarlo, ma è sicuramente collocabile fra il 1665 e il 1669. Ciò risulta dall’esame di due documenti dell’epoca, che sono: una «supplica» inoltrata all’Arcivescovo di Milano databile, per i riferimenti in essa contenuti, all’autunno del 1664 e un atto notarile del 1670 che dà l’Oratorio della Madonna della Neve come «costrutto ed eretto». Ma andiamo con ordine. Con la supplica «Li bergamini del Monte di Biandino e Sasso Cura d’Introbio nel/a va/sassina;…» chiedevano «licenza di fabricar un ‘Oratorio acciò nelli tre o quattro mesi d’estate, eh ‘abitano in quel/e Montagne possano le loro famiglie sentire la Messa e essere ammaestrati le feste nella Dottrina Christiana». Dopo essersi impegnati a costruire l’Oratorio, l’abitazione per il cappellano, acquistare paramenti e suppellettili, i bergamini facevano presente che «.. La dimanda si crede giusta per i seguenti motivi. Sono in questi Monti quattro cassine di bergamini, due di Biandino, una del Sasso l’a/tra di Varrone. In queste vi sono tredici Capi famiglia e tra tutte vi sono cento tredici Anime, compresi poi/i pecorari di altri Monti circonvicini e i lavoranti delle ferriere (miniere) sono più di cento cinquanta. Sono distanti dalla Parrocchiale cinque o sei miglia di strada alpestre e impraticabile. Non hanno chi li ammaestri ne/la Dottrina Christiana, ne gl’insegni il Pater noster. In caso di morte non hanno chi gl’assista, e muoiono senza assoluzione, e morti legati sopra un’assa senza croce e senza lumi si portano a basso, non potendo li Curati, per la longhezza del disastroso viaggio far quello, che per raggione dell’officio loro far si dovrebbe…». Il documento continua facendo presente che questi motivi sono stati evidenziati «.. .per informazione e processo giuridicamente fatto in Introbio…», alla presenza del Curato locale e del sacerdote Giovan Battista Ferrari, Prevosto di Cantù e delegato dalla Curia per assolvere questo compito informativo «. . sotto li 7 luglio 1664…». Questa data è stata più volte indicata come quella in cui la chiesa di Biandino fu costruita mentre, come risulta in modo evidente dal documento che stiamo esaminando, è da riferire al verbale della «oculare ispezione» fatta dal Prevosto di Cantù. I bergamini poi contestano alcune obiezioni precedentemente sollevate dalla Curia circa l’opportunità di costruire una chiesa al Monte Sasso. Si dichiara ad esempio «Non è vero, in detti Monti, vi sia stato altro Oratorio a tempi passati e che d’ordine del glorioso S. Carlo sia stato demolito…». Così pure si respinge l’insinuazione che questi luoghi «…servano da rifugio per fuorusciti e Homicidiarii. . .». Anche il numero dei residenti estivi deve essere ritenuto esatto essendo gli stessi «…dal Delegato arcivescovile e dal Curato d’Introbio riconosciuti e contati ad uno ad uno…».I supplicanti assicurano inoltre che la chiesa non potrà essere profanata, né le suppellettili danneggiate o rubate nei mesi in cui gli alpeggi resteranno deserti perché «…Partendosi da Monti, per habitar nelle pianure, com’è il solito de bergamini, leveranno ogni cosa fino la campana, e si porterà in buona custodia a Introbio fino al ritorno, lasciando l’Oratorio ben chiuso e ben munito di porte, cadenazzi e serrature…». Anche se la totalità degli impegni veniva assunta dagli Annovazzi la supplica venne presentata unitariamente dai bergamini di Biandino, Sasso e Varrone per dimostrare alla Curia che il desiderio di avere a disposizione una cappella e un sacerdote, onde poter ottemperare al precetto festivo e godere dell’assistenza religiosa per i vivi e per i morti, era condiviso da tutti gli «habitatori» estivi di quei Monti. In altre parole, con questa petizione, si faceva presente che non si trattava di appagare l’ambizione di una famiglia benestante ma di soddisfare le necessità di un ragguardevole numero di persone.

Passiamo al secondo documento che è, come detto, un atto notarile. Si tratta di un istrumento datato 5 dicembre 1670, steso da «ignoto notaro», autenticato da Gio.Tornmaso Buzio, notaio attuario della Cancelleria Arcivescovile di Milano. Quella da me visionata è una copia che porta in calce due dichiarazioni di autenticità: una in data 18 giugno 1750 di «Domenico Berio notaio pubblico della Valsassina», l’altra apposta il 19 agosto 1785 dal «Giureconsulto Cesare Francesco Ti cozzi notaio di Milano». Ambedue i notai dichiarano che si tratta di copia identica all’originale. Il documento è anche citato e riassunto nel verbale della visita pastorale fatta in Valle dal Cardinale Odescalchi nel 1722. Su questo istrumento, dopo le solite premesse, si legge: «Da che a maggior gloria dell’Onnipotente Iddio fu costrutto e eretto con le debite riserve un ‘Oratorio sotto il titolo e invocazione di 5. Maria della Neve sul Monte Biandino o Sasso… il quale Monte viene affermato proprietà degli infrascritti Carlo e altri degli Annovazzi». Queste prime righe confermano che, nel 1670, la chiesetta era già costruita. Per inciso dirò che il Monte di Sasso fu acquistato il 5 agosto 1587 da Antonio Annovazzi detto Tognolo; il venditore era il nobile Giacomo Manzoni fu Giovanni Maria, avo di Alessandro autore dei «Promessi Sposi». Continuiamo la lettura. Venivano assegnate alla chiesa «in dote perpetua a titolo di donazione libera e irrevocabile otto luoghi di pascolo o come volgarmente si dice Paghe…». La rendita annuale era stabilita in lire 8 per ogni paga e doveva essere usata per «..far celebrare almeno dodici Messe all’anno nel detto Oratorio di Santa Maria della Neve e anche più di dodici se sarà possibile, e sia data competente elemosina al Cappellano che le celebrerà, e si mantengano all’Oratorio gli opportuni e necessari indumenti, suppellettili e altro… E aggiunta condizione che se mai un giorno, il che Dio non permetta, per inclemenza del tempo o per vetustà dovesse rovinare, né gli eredi e i successori dei predetti Carlo e altri Annovazzi fossero in grado di restaurarlo i redditi dei luoghi o paghe si debbano totalmente convertire nella restaurazione dell’Oratorio, finché e fino a tanto che quello rimanga in tale perfezione da potersi decentemente celebrar la Messa…». Mi sono dilungato su questi due documenti perché, a parer mio, possono essere considerati l’atto di nascita della Chiesa e del Beneficio di Biandino. È da supporre che, una volta costruita la chiesa, la festa del 5 agosto venisse celebrata dagli introbiesi, e in particolar modo dai bergamini e dai minatori del Varrone, con una certa solennità visto che a «cantar Messa» saliva in quel giorno a Biandino il curato di Introbio; fatto insolito essendo l’esercizio normale del culto affidato al cappellano residente sul posto. Un’informazione a questo proposito la rintracciamo nella «Cronichetta del Convento dé Capuccini di Lecco», scritta da fra’ Bernardo d’Acquate nel 1718: «Era solito, e si è praticato anche ultimamente, allì 5 agosto d’andare sù li Monti di Biandino e la sera avanti s’andava ad Introbio, sotto la quale Cura sono detti Monti, per partire per tempo con quel R. Sig. Curato, che viva anch’egli a cantar Messa, ove à quest’effetto vi è un picciol Oratorio dedicato alla Madonna della Neve, e si va sempre col Cercatore, un Padre Predicatore a far un poco di discorso della Madonna, ivi si, pransa, e si fa la cerca, e ordinariamente veniva, e vi viene, una buona cerca di butirro, stracchini singolari, e buoni mascherponi». E così, grazie ai frati di Lecco, sappiamo che ai piedi del Pizzo l’arte di far formaggi è conosciuta da secoli. Gli Annovazzi quali promotori, sostenitori degli oneri per la costruzione e donatori della prima rendita si riservarono il diritto di amministrare il «Beneficio dell’Oratorio della B.V. della Neve in Monte Sasso…». Tale prerogativa, trasmissibile «…a loro eredi e successori…», fu mantenuta sino al 1932, anno in cui venne risolta amichevolmente una vertenza con la Parrocchia che durava da vari anni e costituito un nuovo consiglio d’amministrazione, con presidente Battista Arrigoni Anesetti, segretario il parroco don Arturo Fumagalli e cassiere Lucindo Magni. Questo consiglio rimase in carica sino a quando la Chiesa di Biandino passò sotto la totale giurisdizione della Parrocchia di Introbio. Gli amministratori assolvevano diversi compiti. In particolare incassavano le rendite del Beneficio utilizzandole per assolvere gli impegni specificati nel già citato atto notarile del 1670 – Avevano il diritto di «Eleggere e deputare un sacerdote che fosse loro beneviso» per affidargli, con l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica, l’incarico di cappellano – Provvedevano a tutto quanto necessario per l’esercizio del culto e sovraintendevano alla festa del 5 agosto – Sceglievano i sindaci del Beneficio, i quali però dovevano essere «confermati» dal Vescovo o dal Vicario Foraneo. Come detto il diritto di dirigere l’orchestra amministrativa si perpetuava con la trasmissione del privilegio agli «. . eredi e successori…». Con il passar degli anni la faccenda si andava complicando perché i membri della famiglia detentrice del patronato di Biandino andavano crescendo di numero. In alcuni documenti se ne trovano elencati anche una ventina fra padri, fratelli, cugini e nipoti. Il problema veniva in genere risolto affidando la carica di amministratori effettivi ai capi delle diverse famiglie in cui si era frazionata la parentela, pur non rinnegando il diritto degli altri ad essere consultati quando si trattava di adottare decisioni importanti e di essere informati sull’andamento dell’amministrazione ordinaria. Anche il tesoriere era di solito uno degli amministratori ma, come risulta dai verbali delle Visite Pastorali, in diverse occasioni tale incarico venne affidato ai Curati di Introbio. Al curato e alla Fabbriceria della Chiesa Parrocchiale doveva essere annualmente presentato un “rendiconto”. Non sempre però, a quanto pare, tale incombenza veniva rispettata. Da una relazione firmata dal sacerdote Luigi Arrigoni e dai cugini Antonio e Santino Annovazzi risulta che furono presentati, tutti in una volta, i conti riguardanti gli anni dal 1806 al 1854. Alla relazione non sono allegati i documenti contabili. In sostanza però, tranne il ritardo, tutto era regolare e don Arrigoni concludeva giudicando «Coscienziosa lo loro amministrazione… e solo credeva sollecitarli per rinvenire il sacerdote che celebri all’estate la Messa su quei Monti a commodo dei malghesi…». Raccomandazione giusta perché, dalla stessa relazione, risulta che parecchie volte i cappellani avevano celebrate le messe pattuite nella chiesa di Introbio anziché a Biandino. Anche i cappellani, a fine stagione, dovevano rilasciare una dichiarazione attestante la riscossione di quanto loro spettava e l’assolvimento degli impegni assunti. Come esempio riporto quella del sacerdote Ambrogio Ben: «18 settembre 1792- confesso io infrascritto d’aver ricevuto dal signor Pietro Antonio Annovazzi quale Sindaco ed amministratore dell’Oratorio e Beneficio del Monte Sasso territorio d’Introbio anche a nome di Gio Andrea ed altri nipoti tutti Annovazzi lire centoventi quattro e soldi 20, oltre il convenuto per la spesa della festa del 5 agosto, le quali tutte servono per l’elemosina di Messe ottantatre nel corrente anno in raggione di soldi trenta per cadauna Messa. In fede sacerdote Ambrogio Berio fu Gaspare – Confesso anche d’aver celebrato le medesime Messe nel presente anno 1792». Abbiamo anche la documentazione della nomina di un cappellano”a vita”. Si tratta di un «pubblico editto», emanato dalla Curia Arcivescovile di Milano il 2 febbraio 1732, nel quale si legge che i «Consorti Annovazzi», con l’approvazione del Vicario Generale della Diocesi e del curato di Introbio, hanno «…eletto e deputato per cappellano vitalizio alla celebrazione di Messe quarantre annue da farsi nei mesi estivi nell’Oratorio di Santa Maria della Neve nel Monte Sasso…» il sacerdote «Ambroggio Berio figlio di altro Ambroggio del luogo di Vimogno membro della Prepositurale di Primaluna…». Probabilmente si tratta di un parente dell’altro don Ambrogio Berio, citato più sopra. Da un’appendice allegata al documento, datata 5 marzo dello stesso anno e firmata dal notaio Antonio Rusca, si rileva che la dotazione del Beneficio di Biandino è notevolmente aumentata durante i circa sessant’anni trascorsi dalla fondazione. Alle 68 lire delle otto paghe iniziali si sono aggiunte le seguenti rendite annuali, provenienti da somme detenute in custodia da varie persone: 18 lire (da L.400 presso Domenico e Angelica Selva di Cortabbio) 4 lire e 18 soldi (da L.122 presso Simone Annovazzi) 6 lire e 4 soldi (da L.155 presso Gian Antonio e Cugini Annovazzi detti “Michetta”) 7 lire e 12 soldi (da L.191 presso Andrea Annovazzi) 24 lire (da L.600 presso Gio Maria, Carlantonio e Giuseppe, fratelli Agostoni, di Cortabbio). Per fare un raffronto sull’entità delle somme rispetto ai valori attuali dirò che a quell’epoca alcuni operai, per lavori fatti “alla Chiesa e sul Monte”, vennero pagati 12 soldi all’ora. Una lira corrispondeva a 20 soldi. Oltre alle rendite in “contanti” l’Oratorio di Biandino, lo rilevo sempre dal documento del 1732, beneficiava anche degli affitti di alcuni terreni donati da varie famiglie. Sulle carte in esame figura l’elenco dei terreni, ma non l’importo degli affitti. Si trattava di tre «pezzi di terra prativa cori piante di noci e moroni» per un totale di 18 pertiche milanesi – una «terra campiva» di 3 pertiche – due «pezzi di terra silviera» (castagneti) per 60 pertiche. Tutti questi terreni erano in comune di Vimogno.

Si potrebbe continuare con le citazioni, ma ritengo quanto detto sufficiente a fornire un’idea abbastanza chiara sulle origini della chiesa dedicata alla Madonna della neve e su come funzionava il “Beneficio” di Biandino. Passiamo ora al 1836; l’anno del voto che trasformò la giornata del 5 agosto nella festa più cara agli introbiesi. Fu questo l’anno in cui il colera fece la sua apparizione in Valsassina, mietendo vittime e seminando terrore in tutti i paesi. I valsassinesi ricordavano ancora la micidiale epidemia di tifo petecchiale del 1817, che in alcune località aveva provocato la morte di circa un terzo degli abitanti. Questo ricordo contribuì a far crescere la paura per il nuovo flagello, di fronte al quale la gente si sentiva impotente. Il contagio si manifestò in Valle verso la metà di luglio e cessò alla fine di settembre. Lo storico introbiese ing. Giuseppe Arrigoni, che degli avvenimenti fu testimone oculare, così descrive quella terribile estate: «Era persuasione del volgo lombardo che il malore fosse ad arte introdotto per far perire gli uomini e srarire il mondo troppo gremito. In Valsassina però non altro si pensava e si diceva se non che fosse un castigo di Dio dei peccati degli uomini. Da Bergamo il male venne portato a Rancio (26 giugno 1836), a S. Giovanni, a Castello e in altre terre lecchesi. Uomini, donne, ragazzi, costernati, disperati fuggivano di qua e di là nei paesi sani sperando sottrarsi alla sovrastante morte. La Valsassina ancora esente dal male era inondata da fuggiaschi del Territorio di Lecco e della Brianza. Miseri! Non ricevuti nelle case vivevano all’aperta campagna cibandosi come Dio voleva». Le osterie erano chiuse e i forestieri non potevano fermarsi negli abitati, in alcuni paesi era loro vietato anche entrare nelle chiese, come ad esempio a Pasturo dove «…stavano tre o quattro con archibugi e coltelli e colla pipa in bocca a far guardia alla Chiesa e guai a colui che non era della stessa terra se osava cercar introdursi…». Il particolare della «pipa in bocca» non faccia sorridere, essendo credenza generale che il fumare o masticar tabacco scongiurasse il contagio. Queste «precauzioni» però servirono a ben poco. «… anche a Cortabbio, a Moggio, a Cremeno, a Barzio e nella Riviera del Lago il morbo in breve si sviluppò. Rapidi erano i progressi, perché gli animi non erano preparati, non erano generalmente preparati né ospitali, né infermieri, né seppellitori. Gl’infetti morivano più della metà in due o tre giorni col viso livido e contraffatto. Senza il suono del funereo bronzo, senza le consuete preci e il corteggio dei dolenti, erano di notte sepolti». Il terrore era tale che in alcuni casi furono avviate alla sepoltura persone ancora in vita, almeno così asserisce l’Arrigoni: «Qualcuno si alzò dal cataletto della morte, qualcuno dalla fossa si sollevò, e fu trovato al dimani ai cancelli dei cimiteri…». Dopo aver elogiato il comportamento «…dei molti sacerdoti, medici e privati che nella comune disgrazia mostrarono zelo e filantropia…», lo storico così prosegue: «Dirò che piangenti pei cari perduti, tremanti per sé, scalzi si vedevano d’ogni sesso, d’ogni età, notte e giorno nelle chiese, nei crocicchi delle vie avanti le sante immagini star ginocchioni, orare, accendervi lampade. Dirò che ne morirono in Barzio 35, in Moggio 15, in Cremeno12, in Cortabbio 30.

Proporzionalmente al numero degli abitanti il morbo più infierì a Cortabbio. Poco furon toccati Pasturo, Prima luna, Cortenova. Introbio ne fu salvo…». La descrizione di Giuseppe Arrigoni, se letta con attenzione, dà gli elementi per capire qual’era la situazione in Valsassina in quella brutta estate del 1836. La miseria dei fuggiaschi saliti quassù in cerca di salvezza, l’impreparazione delle autorità civili e sanitarie che non erano in grado di affrontare l’epidemia con mezzi appropriati, la paura del contagio spinta sino al punto da impedire l’accompagnamento dei morti alla sepoltura, la sfiducia nelle provvidenze umane, la sensazione di essere abbandonata a se stessa che spinse la popolazione, già tradizionalmente animata da profonda fede, ad affidare ogni speranza di salvezza alla Provvidenza Divina. Fu in questo frangente che gli introbiesi salirono a Biandino ad invocare la protezione della Madonna della Neve, facendo voto di ripetere ogni anno la processione di penitenza e ringraziamento se la Vergine avesse esaudito le loro preghiere. A completamento del voto furono costruite anche le 14 cappellette della Via Crucis che fiancheggiano il viale di S. Caterina. L’esecuzione degli affreschi fu affidata al pittore Ticozzi Ambrogio di Pasturo, il quale ritrasse nei personaggi principali, tranne Gesù, il volto di persone introbiesi alcune delle quali appartenevano alle famiglie più note. Probabilmente questa “trovata”, piuttosto insolita, fu escogitata per sopperire alle spese che, dati i tempi non certo prosperi, non sarebbe stato possibile scaricare sulla Parrocchia. Introbio fu preservato dal colera; ci fu un ammalato ma nessun morto. La prima processione a Biandino la troviamo descritta in una poesia. Il vecchio manoscritto non è intitolato, però ha un titolo e una data: «1841 – Memento di miracoloso evento». Erano trascorsi appena cinque anni; quella dell’ignoto estensore può quindi essere considerata la testimonianza di un avvenimento personalmente vissuto. Ecco il testo: Cinque d’agosto – d’anno doloroso Suon di campana – triste e lento Chiama la gente – a chieder salvamento. Scalzi li piedi – ceneri sul capo Sale per li sentieri – salmodiando Turba di popol – rattristata e in pianto Va verso l’Alpe – che Biandino è detta Fa alla chiesina – venerata e santa Costrutta dagli avi – in quella conca. Morbo mortal – serpeggia pei villaggi Dicon che da lontan – sia qui arrivato Per punir noi – costanti nel peccato. Miete senza pietà – e vecchi e bimbi E madri e padri – preda sua fa rapace Il misterioso mal – che non da pace. Vergin Maria – che a Biandino stai Guarda la valle – dove morte passa Vedi il dolor – che i nostri cuori squassa. Ti supplichiam – Madre benigna e pia Salva la nostra gente – Tu che il puoi Miserere di noi – siam figli tuoi. Non sarà un capolavoro ma, nella sua commovente semplicità, ci aiuta a comprendere con quale mestizia e con quanta fede i nostri vecchi s’incamminarono per Biandino quel 5 agosto 1836. Da quella data la Beata Vergine della Neve divenne la “Madonna di Biandino”, un titolo che nessun calendario riporta ma che è stampato da generazioni nel cuore della nostra gente. Il voto degli avi è tuttora puntualmente rispettato e, anche se al Santuario non si sale più a piedi scalzi, da 150 anni per gli introbiesi «ol dì de la Madona» (il giorno della Madonna) è il 5 di agosto.

GIULIO SELVA
dal sto http://www.biandino.sitiwebs.com/page5.php

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