Servo di Dio Felice Tantardini Cooperatore del PIME

Felice di nome e di fatto, si autodefinisce “il fabbro di Dio”, ma chissà l’effetto che gli fa oggi sentirsi chiamare “il santo con il martello”. Nasce nel 1898 a Introbio, in Valsassina (Lecco), sesto di otto figli e mamma, a corto di nomi, ascolta il parere della levatrice, che le suggerisce di chiamarlo Felice: un nome che a lui piacerà sempre, perché “esprime l’ideale della mia vita: sforzarmi di essere felice, sempre e ad ogni costo, ed essere intento a far felici gli altri”. Dopo la terza elementare, a 10 anni comincia a lavorare come fabbro, a 13 è orfano di padre, a 17 è dipendente all’Ansaldo di Genova, proprio mentre l’Italia entra in guerra. Dopo la disfatta di Caporetto è arruolato e, dopo un paio di mesi di addestramento, mandato in prima linea, a far da “esca ai tedeschi per attirarli sotto il fuoco delle nostre artiglierie”. Ci resta appena un paio di giorni, perché è subito fatto prigioniero e passa così da un campo di lavoro all’altro, da Udine a Gorizia a Belgrado, dove si muore anche di fame.

Quando proprio non ne può più, con altri quattro progetta l’evasione, strisciando come un topo di fogna in un canale di scolo e raggiungendo con un viaggio avventuroso la Grecia e di qui l’Italia. Dove, alla fine del servizio militare, lo attende in modo inaspettato la vocazione, maturata sulle riviste missionarie, che la sorella più piccola ha messo da parte proprio per lui. Comincia a sognare le missioni ad occhi aperti, anche se il padrone dell’officina elettrica in cui è andato a lavorare gli vorrebbe dare in sposa una delle sue figlie. Per fargli cambiare idea arriva ad accusarlo di essere “crudele a lasciare la mamma sola e che ne avrei affrettato di dieci anni la morte”, mentre questa lo invita a seguire la sua strada, mettendolo solo in guardia che quella improvvisa vocazione non sia un fuoco di paglia.

A 23 anni entra nel Pime e dieci mesi dopo è destinato alla Birmania come fratello laico: non avrebbe i numeri per studiare e, in fondo, quella del prete non è neppure la sua vocazione. Parte per la missione il 2 settembre 1922: vi resterà ininterrottamente per 69 anni, con un solo rientro di pochi mesi in Italia, nel 1956, giusto il tempo per una revisione generale della sua salute e per tentare inutilmente di “mettere su un po’ di carne sulle ossa, ormai spolpate”. È destinato alla missione di Toungoo, ma in effetti si sposta di missione in missione, ovunque lo mandano a chiamare, perché i Padri hanno dimora fissa, un campo di lavoro determinato, mentre lui abita dove c’è lavoro, non ha un focolare proprio, cambia casa, letto, cucina. Soprattutto non cambia l’incudine ed il martello perché, prima di tutto, lui si sente fabbro, con una eccezionale forza nei muscoli, tanto da piegare le sbarre di ferro con le sole braccia, sempre intento a forgiare, battere, segare, limare putrelle o aste di ferro, per farne capriate, cancelli, letti o blocchiere. Così facendo costruisce  chiese, scuole, case parrocchiali, ospedali, seminari, orfanotrofi, conventi, ponti: sempre con il sorriso, perché Felice è davvero… felice di contribuire con il suo lavoro all’annuncio del Vangelo. A volte gli viene chiesto anche di annunciarlo, facendo catechesi a piccoli e grandi, ma quello che gli riesce meglio lo fa con l’incudine ed il martello.

Ha una fiducia illimitata nella “cara Madonna”, con la quale si intrattiene ogni giorno con la recita dei suoi consueti tre rosari mentre gli altri fano il pisolino. Piccolo di statura, un po’ curvo, dal fisico asciutto e dai capelli arruffati, “esteticamente non è un bell’uomo”, lo descrive padre Clemente Vismara (oggi beato), che svela anche il suo difetto: “Il debole di Fratel Felice è la pipa; tranne il tempo della preghiera ed il tempo che mastica cibo, la pipa è sempre in bocca”. Se gli dicono “Felice, tu non potrai essere canonizzato, proprio a causa di questo attaccamento alla pipa”, invariabilmente risponde: “Tanto meglio!”.
A 85 anni lo mandano in “pensione”, nel senso che gli impediscono di lavorare il ferro e gli comandano di pregare. Ubbidisce, come sempre, con un unico rimpianto: dalle sue mani spariscono i calli e gli spiace parecchio non potersi presentare più come “fabbro di Dio” al rendiconto finale. Un particolare, questo, cui il buon Dio evidentemente non ha fatto caso, quando il 23 marzo 1991, a 93 anni, fratel Felice Tantardini gli si è presentato davanti. Tre anni dopo già si parla della sua beatificazione e alla fine si aspetta fino al 1999 per iniziare il processo, che adesso è approdato a Roma, perché, come dicono in Birmania, Fratel Felice “era conosciuto e stimato più del vescovo”.


Autore:
Gianpiero Pettiti per Santi e Beati