Meditazioni dell'Arcivescovo Credo – Chiesa di Milano




TUTTE LE OMELIE DELL’ARCIVESCOVO DELPINI DEL GIOVEDÌ, VENERDÌ, SABATO SANTO E PASQUA

Scritto il 9 aprile, 2023

Proponiamo dal sito della Chiesa di Milano tutte le omelie delle celebrazioni del Giovedi, Venerdi, Sabato Santo e di Pasqua del nostro Arcivescovo Mario Delpini,

Pasqua: «Gesù Risorto, una presenza amica che parla a tutti noi»

Nella rivelazione a Maddalena «la grazia di Pasqua è l’incontro che chiama alla gioia della risurrezione»: così l’Arcivescovo nell’omelia del Pontificale presieduto in Duomo, al termine del quale ha pranzato all’Opera Cardinal Ferrari.

«La grazia di Pasqua è l’incontro che chiama alla gioia della risurrezione, è la rivelazione che, nell’intimità profonda dove facciamo fatica a sostare per timore dell’abisso angosciante e dei mostri invincibili, c’è invece la presenza amica di Gesù». In una bella giornata di sole, in un Duomo magnifico in cui si celebra «il vero giorno di Dio, radioso di santa luce», come recita l’Inno del patrono Ambrogio, è questo che l’Arcivescovo dice ai moltissimi fedeli presenti per il Pontificale da lui presieduto e concelebrato dai membri del Capitolo metropolitano. Giornata di festa e di ringraziamento che l’Arcivescovo aveva iniziato presso il carcere di Opera, con la Messa celebrata per i detenuti e il personale della Casa di reclusione.

Tra le navate della Cattedrale, i dodici Kyrie della Liturgia ambrosiana, i gesti liturgici, i canti, le tre letture tratte dal Nuovo Testamento – attraverso pagine degli Atti degli Apostoli, della I Epistola ai Corinzi e del Vangelo di Giovanni – definiscono il senso della gioia di partecipare a un nuovo inizio. Di «essere Chiesa che canta, per tutta l’umanità, la speranza», nonostante i tanti drammi che segnano il mondo e le sofferenze personali come quella, narrata da Giovanni, di Maria di Màgdala, in pianto davanti al sepolcro di Cristo.

La presenza amica del Signore

È lei che, non riconoscendo il Maestro, è immersa «nella sua stanza segreta» fatta di «desolazione, vuoto, oscuro abisso». Di un’intimità così insopportabile – dice nell’omelia l’Arcivescovo parlando di Maria, ma alludendo anche a tutti noi – per cui «molti distolgono lo sguardo ed è meglio vivere di esteriorità, di apparenze piuttosto che sostare sull’orlo dell’abisso spaventoso; meglio recitare una parte, investire su un ruolo, adeguarsi alle aspettative altrui, piuttosto che fare i conti con la propria verità nell’intimità angosciante dove forse abitano incubi insostenibili; meglio vivere nella frenesia, nel rumore, nelle chiacchiere, piuttosto che restare nel silenzio opprimente di una buia solitudine. Meglio vivere fuori di sé, piuttosto che dover fare in conti con sé stessi».

L’Arcivescovo saluta alcuni bambini al termine della celebrazione

Eppure – perché questo significa la Pasqua – c’è una voce, magari all’inizio non riconosciuta, che chiama ognuno per nome e fa percepire «in modo confuso che la verità profonda non è una solitudine: c’è infatti, proprio là, nella stanza segreta, una presenza indecifrabile». È la voce inattesa del Signore che sa parlare nell’intimità: «La parola dello Sconosciuto raggiunge quella che sembrava una solitudine angosciante e si rivela un invito alla comunione, capace di accendere nelle tenebre la luce lieta che le tenebre non possono spegnere».

È la verità che si manifesta a Maria, la prima a vedere il Signore risorto, e a noi 2000 anni dopo, non con «l’esteriorità di una euforia, ma con la rivelazione che, nella camera più segreta, dove nessuno può entrare, abita la presenza amica del risorto». Per questo, sottolinea ancora l’Arcivescovo, «la nostra verità profonda non è la solitudine, l’abisso del nulla che insidia la vita, ma la comunione amorosa che rende vivi della via del Figlio di Dio. Anche se percepiamo di essere troppo piccoli e soli di fronte allo splendore e all’orrore, alle domande inquietanti e alle minacce insostenibili, la verità di Pasqua ci dice che Gesù è morto per i nostri peccati e che non è estraneo a quell’abisso di male, a quella minaccia di morte che ci spaventa, ma in quell’abisso ha vinto il male, la morte e lo spavento».

A conclusione del Pontificale, prima della benedizione papale con l’indulgenza plenaria impartita dall’Arcivescovo per facoltà ottenuta da papa Francesco, c’è ancora tempo per un augurio perché «a tutti giunga la benedizione del Signore rendendoci capaci di cantare l’alleluia» e per ascoltare, appunto l’Hallelujah del Messia di Häendel, eseguito dalla Cappella musicale del Duomo e da un ensemble di ottoni, mentre i concelebranti percorrono, in processione, la navata centrale della Cattedrale.

Successivamente, come ormai tradizione, monsignor Delpini si è recato presso l’Opera Cardinal Ferrari dove ha partecipato al pranzo di Pasqua con ospiti e volontari. I giovani Marco, Chiara e Rebecca; Nancy e Rosa, madre e figlia; Stefano e Daniela, marito e moglie, e tantissimi altri volontari che hanno deciso di trascorrere il loro giorno di festa per donarsi al prossimo. Sono stati loro i grandi protagonisti del pranzo di Pasqua, che ha regalato anche quest’anno una preziosa occasione per 150 persone di non rinunciare a festeggiare la Pasqua.

Giovedì Santo «Impariamo tutti lo stile, il linguaggio e le vie della missione quotidiana»

In Duomo l’Arcivescovo ha celebrato la Messa crismale. Tra gli oli benedetti anche l’“Olio di Capaci”: «Dallo strazio di uomini al servizio del bene comune sorge un principio di speranza»

È terminata poco fa in Duomo la Messa crismale presieduta dall’Arcivescovo, in cui tradizionalmente tutti i presbiteri rinnovano le promesse fatte nel giorno della loro ordinazione e durante la quale vengono benedetti gli oli santi del Crisma, poi consegnati ai Decani per essere portati nelle parrocchie e nelle cappelle ospedaliere della Diocesi.

Nell’omelia monsignor Mario Delpini ha ricordato che «nella Chiesa tutti i battezzati sono pietre vive, sono chiamati per essere mandati a portare il lieto annuncio ai poveri. (…) La corresponsabilità di tutti per la missione si vive nella vita ordinaria, si vive negli ambienti del quotidiano, come testimonianza, come il rendere ragione della speranza che è in noi. Tutti i battezzati, ma in modo particolare i laici, uomini e donne, sono mandati per essere testimoni là dove vivono, lavorano, coltivano i loro affetti e la loro gioia, attraversano le loro tribolazioni e si prendono cura dei fratelli e delle sorelle».

Tuttavia, ha sottolineato l’Arcivescovo, «si deve riconoscere che lo spirito missionario delle nostre comunità stenta a trovare i linguaggi, si esprime con timidezza, persino con imbarazzo, quasi che l’ideale sia essere cristiani senza dirlo, senza dire Gesù». In questo senso, ha continuato, possono essere di aiuto le Assemblee Sinodali Decanali che si stanno configurando in Diocesi: il loro scopo, infatti, è «imparare lo stile, il linguaggio, le vie della missione quotidiana da parte di tutti».

Dopo un riferimento ai ministeri laicali del Lettorato, dell’Accolitato, del Catechista, che saranno istituiti secondo le indicazioni del Papa e della Conferenza Episcopale Italiana nel corso di questo anno pastorale, monsignor Delpini si è rivolto a diaconi e sacerdoti.

A proposito dei primi, l’Arcivescovo ha affermato di «cogliere con una certa frequenza una specie di imbarazzo a proposito del rapporto tra preti e diaconi, come se i due gradi del ministero ordinato avessero un principio di incompatibilità. Ma il diacono, come il presbitero, è collaboratore del vescovo per la missione». E rivolgendosi ai sacerdoti, ha continuato: «Ho molte ragioni per una stima profonda e una immensa riconoscenza per i preti. (…) Essere preti significa, prima di ogni ruolo e potere, appartenere al presbiterio diocesano. L’appartenenza al presbiterio comporta la recezione delle proposte diocesane, la pratica sinodale delle decisioni, la cura per la fraternità dei rapporti».

Tra gli oli benedetti durante la Messa Crismale, erano presenti quest’anno anche oli provenienti dal “Giardino della Memoria di Capaci”, a Palermo, dove nella zona in cui 31 anni fa vennero uccisi il giudice Falcone, la moglie e tre agenti della scorta è stato piantato un uliveto: «Da quegli ulivi – ha spiegato l’Arcivescovo – si ricava dell’olio che quest’anno è stato consegnato dai Questori a tutte le Diocesi d’Italia. È un segno di quell’olio di letizia che attesta che il bene vince sul male, che dalla terra bagnata dal sangue e dallo strazio di uomini al servizio del bene comune sorge un principio di speranza».

Giovedì Santo «Celebriamo la Pasqua ripensando la nostra missione nella città»

In Duomo l’Arcivescovo ha aperto il Triduo presiedendo la Messa “in coena Domini”, con la lavanda dei piedi a 12 giovani che parteciperanno alla Gmg di Lisbona

La città della confusione, delle masse di turisti e della folla innumerevole senza volto, la città senz’anima da cui, forse, fuggono persino i profeti. Ma anche la città che è adatta per celebrare la Pasqua, come fece il Signore a Gerusalemme.

È la Messa vespertina nella Cena del Signore che, ripercorrendo i momenti iniziali della sua Passione, avvia il Triduo pasquale. Celebrazione presieduta in Duomo dall’Arcivescovo – cui sono accanto, oltre i Canonici del Capitolo metropolitano, il Vicario generale monsignor Franco Agnesi e il Vicario episcopale per la Zona I monsignor Carlo Azzimonti -, che si apre con il Rito della lavanda dei piedi, compiuto su 12 giovani – 5 le ragazze – che parteciperanno in agosto alla Gmg di Lisbona.

Dopo il Rito della luce e la proclamazione delle tre letture peculiari della Coena Domini (dal Libro del profeta Giona, dalla prima Lettera paolina ai Corinzi e dalla pagina della Passione di Matteo), l’omelia dell’Arcivescovo invita con forza a riflettere sulla presenza dei cristiani nella grande città.

Il richiamo a Ninive

«Questa è la città», dice, infatti, «la casa adatta per celebrare la Pasqua. Forse nessuno se ne accorge, forse la città pensa ad altro ed è indaffarata per accogliere turisti o preparare bagagli per partire, ma noi siamo qui a celebrare la Pasqua e ne siamo lieti».

Il richiamo è a Giona al quale il Signore comandò, «Alzati e va’ a Ninive, la grande città», nell’evidente riferimento alle metropoli di oggi. Quelle «della confusione, dove si può chiamare bene il male e male il bene, dove il guadagno dei ricchi è un merito e la povertà è una colpa, dove l’egoismo che si impone è un diritto e la dedizione fedele nel servizio è una provocazione. La città dell’indifferenza, dove non si aspetta nessun profeta, dove non c’è tempo per nessun Vangelo, dove non c’è fame di nessun pane di vita».

La città che fa paura e dalla quale, tuttavia, non si può fuggire se si segue il Signore, anche se, forse, nella città «malvagia, confusa, indifferente, temibile» sono rimasti solo «gli esperti e i mercanti, i poveri e gli stranieri che nessuno vorrebbe, gente di passaggio che visita i monumenti e poi se ne va, tanta gente che non distingue la mano destra dalla sinistra».

Eppure, questo è anche, per Gesù, il contesto adatto per fare Pasqua: «Non la casa amica di Betania, non la casa paterna di Nazaret, non la casa di Simone in Cafarnao. Gesù vuole celebrare la Pasqua in città, nella città contraddittoria dove si mescolano accoglienze generose e oscure trame di morte».

L’intuizione di Martini

Come le città, appunto, del presente che un profeta come il cardinale Martini (che non scappò mai) aveva perfettamente intuito già nel 1991, proprio nella lettera intitolata Alzati, va’ a Ninive, la grande città. Scritto che monsignor Delpini cita e in cui l’allora Arcivescovo scriveva: «Occorre affrontare con urgenza il compito di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione anche nella metropoli moderna». Un tema – questo – definito «molto importante e complesso», per cui «la visita pastorale (attualmente in corso a Milano) offrirà forse spunti per ripensare la missione in città che la nostra Chiesa ambrosiana deve affrontare», suggerisce ancora l’Arcivescovo. «Questa celebrazione ci trova riuniti come gente che non è fuggita via dalla città. Non siamo profeti migliori di Giona, non siamo persone rimaste solo per dovere. Siamo discepoli imperfetti, eppure sinceri che si domandano cosa stanno a fare in città e perché Gesù manda i suoi discepoli in città. Forse in città non ci sono profeti. Certo, però, ci sono comunità che celebrano la Pasqua».

Missione e fraternità

Da qui la conclusione. «Ne ricaviamo, quindi, due indicazioni per celebrare la cena del Signore: mangiare con Lui la Pasqua – la partecipazione alla sua missione, con la condivisione della sua preghiera e del suo strazio – e la fraternità praticata in semplicità».

Dopo altri momenti suggestivi come quello nel quale i pueri cantores della Cappella musicale del Duomo si dispongono intorno all’altare maggiore cantando l’antifona ambrosiana che introduce solennemente alla liturgia eucaristica, al termine della celebrazione, l’Eucaristia viene portata in processione presso l’altare laterale della Riposizione dove resterà fino alla Veglia pasquale.

Venerdì Santo «Sulla croce si compie l’amore di Dio per l’uomo»

In Duomo l’Arcivescovo ha presieduto la celebrazione della Passione. Nell’omelia un riferimento alla guerra: «La preghiera per la pace diventi cammino di conversione per percorrere le vie della pace»
Passione 2023

Il racconto angosciante della Passione del Signore che pare confermare la convinzione che l’umanità – 2000 anni fa come oggi – sia «fatta male e cattiva», ma che, pure, può far comprendere a questa stessa umanità la sua vocazione autentica nell’essere tutti figli di Dio e, dunque, fratelli salvati dal sacrificio di Cristo.

Non è difficile vedere nell’omelia dell’Arcivescovo, che presiede in Duomo la celebrazione della Passione e della Deposizione del Signore, il monito che viene dal Venerdì Santo con la sua solenne liturgia, definita anche «Pasqua di Crocefissione» secondo l’antico Rito ambrosiano. Passione – concelebrata dai membri del Capitolo metropolitano della Cattedrale, dal vescovo monsignor Giuseppe Merisi e dal vicario episcopale per la Zona I monsignor Carlo Azzimonti -, nella quale sono molti e carichi di un significato evidente i gesti e i segni che rendono viva la memoria del sacrificio del Redentore. Come il Rito della luce iniziale, l’Inno, la prima e la seconda Lettura dal Libro del profeta Isaia che prefigurano la figura del Servo di Dio Gesù, precedendo il canto del Tenebrae (anch’esso tipico ambrosiano). Fino ad arrivare al Vangelo di Matteo, che riprende dal punto in cui si era concluso nella celebrazione in Coena Domini e che, proclamato dall’Arcivescovo (è l’unica volta che avviene durante l’anno, per un un’antica tradizione della Chiesa Cattedrale), si interrompe nel momento in cui «Gesù gridò a gran voce ed emise lo Spirito», mentre in Duomo scende l’oscurità, ci si inginocchia ed è spogliato l’altare.

Dopo la ripresa del Vangelo, l’omelia dell’Arcivescovo scuote la coscienza di noi cristiani tiepidi del terzo millennio.

La domanda di fronte alla croce

«Si deve trovare, nel racconto della Passione, la conferma che l’umanità sia cattiva? Si deve, dunque, ritenere che le istituzioni politiche siano ostaggio degli umori popolari? Hanno ragione coloro che sono convinti che i responsabili delle istituzioni religiose siano dominati da una ideologia indiscutibile che sopprime senza pietà la voce di Gesù come è stato fatto dei profeti? Si deve pensare che le folle siano stupide, facilmente manovrabili, se passano dall’accoglienza entusiasta del re mite all’ostinata richiesta che sia crocifisso? Si deve constatare che c’è nell’umanità un principio di crudeltà?».

E allora l’interrogativo, cui dà voce esplicita l’Arcivescovo, viene spontaneo: «Dove sono i buoni, i discepoli, gli amici, quelli che si dichiaravano disposti a morire con Gesù? Queste stesse domande ci accompagnano quando consideriamo lo spettacolo contemporaneo. Che si deve pensare dell’umanità che si ammazza in guerra, delle istituzioni e delle autorità politiche nazionali e internazionali ridotte all’impotenza e all’inconcludenza di fronte ai drammi tremendi della miseria, delle guerre, delle ingiustizie? Che si deve pensare degli affari che prosperano nella corruzione, vendendo armi, spacciando droga, comprando l’indifferenza? L’umanità è veramente stupida, crudele, è vile, incapace di scrivere una storia diversa?».

Di fronte a quello che l’Arcivescovo definisce «lo spettacolo desolante, il buio cosmico e l’ultimo grido, il velo squarciato invita a riflettere, il tremare della terra distoglie il pensiero dai luoghi comuni, dalle parole logore e grigie e, dallo spavento, nasce una specie di professione di fede». Ma come interpretare con uno sguardo nella speranza affidabile «la tragica vicenda di Gesù?».

«Non parlate troppo male dell’umanità»

«Nell’ultimo grido l’evangelista Giovanni ha decifrato il compimento della rivelazione. Gesù grida: “Fratelli, sorelle, povera umanità desolata, io vi ho amato fino alla fine, vi amo”. Il Figlio di Dio rivela la volontà di Dio che vuole che tutti siano salvati». Così la morte del Signore non è un modo per dire che l’umanità è malata (e purtroppo sappiamo quanto lo sia) ma – questa è la grande speranza – che piuttosto, «rivela il compimento della dichiarazione di amore di Dio e la salvezza». Una parola che salva guardando, anche nel venerdì di Passione, alla Pasqua di risurrezione.

«Che si deve dire dell’umanità, che è vile e crudele? – sottolinea l’Arcivescovo -. No, si deve dire che è amata da Dio. Non parlate troppo male dell’umanità, piuttosto esplorate quale via si deve percorrere perché riveli la sua realtà profonda». Quella del desiderio di pace che è nel cuore di moltissimi, come ha testimoniato anche l’adesione all’appello “Noi vogliamo la pace”. «La preghiera per la pace è praticata da mesi nelle nostre comunità svegliate a una considerazione realistica della situazione contemporanea dal clamore della guerra in Ucraina che mostra questo dramma tremendo che sempre insanguina la terra in tante parti che, forse, preferiamo non vedere e a cui non vogliamo pensare».

Pregare per la pace alla sequela del Signore

«Continuiamo a pregare per la pace, aprendo lo sguardo su tutte le guerre che straziano l’umanità a causa dell’avidità, della stupidità, delle passioni che tormentano gli animi dei potenti e le memorie dei popoli. Ma la preghiera per la pace per coloro che celebrano la passione del Signore deve diventare cammino di conversione per percorrere le vie della pace, cioè la via di Gesù, la via del mite assetato di giustizia, che ama fino al perdono. Mettiamoci in cammino verso il morire di Gesù, principio di vita nuova: questa umanità è amata da Dio, l’amore di Dio semina principi di amabilità e questa umanità diventa amabile e riconosce la regalità di Gesù e segue Gesù per scrivere una storia ispirata al grido che squarcia il velo del tempio». Scandita, la conclusione: «Il regno di Dio è vicino, entra con il passo dei giusti, dei miti che seguono il passo di Gesù».

Una fede confermata dall’adorazione della croce portata in processione dal fondo del Duomo all’altare – tra coloro che baciano il crocifisso anche due ragazzi dell’Agesci di Parma, in rappresentanza di tanti coetanei che seguono la celebrazione – e nella preghiera universale. La più solenne dell’anno liturgico, con le sue 11 orazioni che paiono abbracciare il mondo intero, dal Papa alla Chiesa, dai fratelli maggiori ebrei ai cristiani di tutte le confessioni, da chi non crede ai governanti, dall’umanità sofferente per tutte le epidemie a chi è in guerra, fino ai defunti.

Infine, la celebrazione della Deposizione del Signore, con le due letture dal profeta Daniele e con la continuazione del Vangelo di Matteo, mentre tra le navate scende il silenzio e viene velata la Croce.

Sabato Santo «Celebrare la Pasqua è compiere un passaggio»

Nell’omelia della Veglia presieduta in Duomo l’Arcivescovo ne ha richiamati tre: quello dei catecumeni verso la Chiesa, quello di tutti i fedeli verso la riconciliazione e quello dei popoli verso la pace.

La notte “diversa da tutte le altre notti”, in cui si vive la Risurrezione del Signore, «la madre di tutte le sante veglie», come la definì Sant’Agostino, veglia di Pasqua vissuta, a Milano e in tante altre parti del mondo, come passaggio per invocare la pace tra i popoli.

È la veglia presieduta in Duomo dall’Arcivescovo, concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano e da alcuni sacerdoti impegnati nell’accompagnamento dei catecumeni, che durante la Messa ricevono i sacramenti dell’iniziazione cristiana. E sono proprio 9 battezzandi – su un totale di 74 che, nelle loro parrocchie sparse nell’intera Diocesi, diventano cristiani nella stessa notte – a porgere all’Arcivescovo, all’ingresso della Cattedrale, il lume a cui si attinge il fuoco per accendere l’artistico cero pasquale, elaborato dalle Clarisse del Monastero di clausura cittadino di Gorla, che viene poi posto in altare maggiore, come segno della luce che entra nel mondo con il Cristo risorto. Gesto antichissimo ed emblematico, così come tipico, nel rito ambrosiano, è il testo latino del Preconio pasquale, risalente alla fine del V secolo-inizio del VI che, all’inizio della Veglia, viene cantato dal diacono quale sintesi poetica dell’intera storia della salvezza.

Guidati dalla straordinaria ricchezza della Parola di Dio, attraverso nove Letture – sei dai libri sacri di Israele – si contempla, così, il miracolo della perenne novità del Signore prefigurata nel primo Testamento. Finalmente, il triplice annuncio della Risurrezione, Christus Dominus resurrexit, anch’esso peculiare del rito ambrosiano e in tutto simile al Cristos Anesti della liturgia bizantina nella Pasqua ortodossa – alla veglia assiste anche l’archimandrita del Patriarcato di Mosca, padre Ambrogio Makar – viene proclamato, con voce crescente, dall’Arcivescovo ai tre lati dell’altare maggiore. Le campane, in silenzio dalla celebrazione della Passione del Signore del Venerdì santo, si sciolgono e torna l’atteso canto dell’Alleluia, assente dalla prima domenica di Quaresima.

La gioia per il Signore risorto

È la gioia per il Signore risorto, per la luce che sconfigge le tenebre di un’umanità che cammina, ma non sa dove andare. All’avvio dell’omelia il riferimento alle letture appena proclamate diventa così la parafrasi della condizione degli uomini di tutti i tempi che, per sentirsi rassicurati, hanno preferito «gli idoli costruiti dalle loro mani alle promesse di Dio», che «chiamati da una promessa, si sono smarriti in un deserto in cui si sentono abbandonati e dove non c’è più alcun segno che indichi la direzione per la terra promessa». Gli stessi uomini che «hanno crocifisso Gesù di Nazareth, perché il regno che annunciava non corrispondeva in nulla al trionfo mondano che ci si aspettava».

Ma è proprio «là dove la vita sembra inghiottita dalla morte, là dove il nemico invincibile incalza alle spalle e ogni via di fuga è impedita dalle acque del mare, che Dio apre una strada». Quella via – non a caso, in antico, i cristiani venivano anche detti «quelli della via» – che passa dalla Pasqua del Signore e apre il passaggio alla vita. Infatti, «tutta la grande veglia è la celebrazione del passare: celebriamo perciò la Pasqua accogliendo l’annuncio che ci chiama a compiere il nostro passaggio», sottolinea l’Arcivescovo.

Il passaggio alla vita nuova

Se la Pasqua – dall’originale aramaico pasach che significava «passare oltre», commemorando la liberazione dei figli di Israele dalla terra d’Egitto -, «è il grande passaggio che apre finalmente una strada al popolo che il deserto ha bloccato», ciascuno, allora, è chiamato alla conversione, al cammino che, con il battesimo, entra nella sua svolta decisiva. «Così come i catecumeni compiono il grande definitivo passaggio nell’acqua del battesimo».
«Ciascuno di coloro che compiono questa notte l’iniziazione cristiana, come mi hanno raccontato, ha la sua storia, talora drammatica come un esodo, talora entusiasmante come la scoperta di un amore, talora rassicurante come la promessa di appartenere al popolo di Dio. La gioia dei catecumeni è diventata la gioia di coloro che li hanno accompagnati e la gioia delle comunità cristiane che li hanno accolti».

Ed è ai catecumeni, infatti, che si rivolge direttamente, subito dopo, l’Arcivescovo: «La vostra vita cambia non per un vestito che si indossa, ma per essere uomini e donne rinnovati della grazia: non tornate alla vita di prima. Celebriamo la Pasqua, il passaggio del Signore, non perché siamo perfetti, ma perché abbiamo bisogno di perdono e di riconciliazione; non perché siamo contenti di noi stessi e viviamo nella sicurezza adeguata per fare festa, annunciamo una gioia di cui non siamo padroni, ma la promessa che abbiamo ricevuto in dono. Decidiamoci a trasformare la nostra vita, a presentarci al Signore, a chiedere perdono, a cominciare un’esistenza rinnovata con la grazia del nostro battesimo. Una Pasqua che sia, per i catecumeni, «un passaggio all’appartenenza gioiosa e grata alla Chiesa»; per i fedeli tutti «un passaggio dalla mediocrità alla santità, dal peccato alla riconciliazione».

Una Pasqua di pace

Il messaggio per l’umanità intera non può che essere quello della pace, con una parola che, scandita più volte dall’Arcivescovo, risuona nel silenzio tra le navate. «Vorremmo che questo messaggio di pace raggiungesse tutti i Paesi della terra, soprattutto laddove sono in atto guerre dissennate che distruggono l’umanità e l’ambiente in cui viviamo. Ci sia nei popoli la pace: chiediamo che questa Pasqua segni un passaggio verso l’umanità riconciliata».

E, così, gli ormai nove neofiti rivestiti della veste bianca – tra gli altri, due fratelli albanesi, due studenti della Cattolica, un italiano e una ragazza greca, un giovane nato a Taipei e un altro in Cina, divenuti tali con il conferimento del battesimo da parte dell’Arcivescovo presso il battistero carolino cinquecentesco, e poi con la confermazione e la prima comunione -, divengono il simbolo vivo di un domani nel quale risuona, concretissimo, il «Non abbiate paura» del Vangelo della Risurrezione.

 

Like (0)Condividi su
Categories : Chiesa di Milano | Decanato | Formazione | Quaresima e Pasqua


No comments yet.

Sorry, the comment form is closed at this time.